di Marco Martinelli
ideazione e regia Marco Martinelli e Ermanna Montanari
in scena Ermanna Montanari
musica Luigi Ceccarelli
tromba Simone Marzocchi
regia del suono Marco Olivieri
spazio e costumi Ermanna Montanari e Anusc Castiglioni
ombre Anusc Castiglioni
disegno luci Enrico Isola
tecnico luci e video Fagio
tecnico ombre Alessandro Pippo Bonoli
assistente luci Luca Pagliano
setar persiano in audio Darioush Madani
realizzazione musiche Edisonstudio Roma
consulenza musicale Francesco Altilio, Giulio Cintoni, Cristian Maddalena, Mirjana Nardelli, Fabrizio Nastari, Giovanni Tancredi, Andrea Veneri
consulenza iconografica Alessandro Volpe
sartoria Laura Graziani Alta Moda
grafica e serigrafia su tessuto La Stamperia laboratorio artistico di Andrea Mosconi
elementi di scena realizzati dalla squadra tecnica del Teatro delle Albe Alessandro Pippo Bonoli, Fabio Ceroni, Luca Fagioli, Enrico Isola, Dennis Masotti, Danilo Maniscalco, Luca Pagliano direzione organizzativa Silvia Pagliano
organizzazione e promozione Francesca Venturi, Veronica Gennari
consulenza e ufficio stampa Rosalba Ruggeri

produzione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro in collaborazione con Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia 2018 (Progetto cofinanziato dal POC Campania 2014-2020) e Ravenna Festival

durata 1 ora

fedeli d’Amore è un “polittico in sette quadri”, un testo di Marco Martinelli “attorno” a Dante Alighieri e al nostro presente. A parlarci, nei singoli quadri, sono voci diverse: la nebbia di un’alba del 1321, il demone della fossa dove sono puniti i mercanti di morte, un asino che ha trasportato il poeta nel suo ultimo viaggio, il diavoletto del “rabbuffo” che scatena le risse attorno al denaro, l’Italia che scalcia se stessa, Antonia figlia dell’Alighieri, e “una fine che non è una fine”.
Queste voci ci parlano del profugo, del poeta fuggito dalla sua città che lo ha condannato al rogo, e ora è sul letto di morte in esilio, a Ravenna, in preda a febbre malarica. La nebbia per prima si infila nelle fessure delle finestre e entra in quella cameretta, e ce lo descrive sulla soglia del passaggio estremo. Quelle voci sono sospese tra il Trecento e il nostro presente, e la scrittura di Martinelli accetta, e non da oggi, la sfida dantesca di tenere insieme “realtà” politica e metafisica, cronaca e spiritualità.
Amore è evocato come stella polare dei fedeli d’Amore, forza che libera l’umanità dalla violenza, che salva “l’aiuola che ci fa tanto feroci”. Le voci di questo “polittico” sono un’unica voce che ne sa contenere innumerevoli, quella di Ermanna Montanari: aria, fuoco, suono, materia. Questo “polittico” per il palcoscenico arricchisce l’itinerario che, insieme a Ravenna Festival, Martinelli e Montanari e il Teatro delle Albe hanno iniziato nel 2017 con Inferno, e che proseguirà nel 2019 e 2021 con le altre due cantiche della Divina Commedia.
fedeli d’Amore è un ulteriore tassello della loro incessante ricerca drammaturgica, vocale, musicale e visiva, insieme a sapienti come Luigi Ceccarelli e Marco Olivieri, Anusc Castiglioni e Simone Marzocchi; e si inserisce in quel solco dove centrale è l’alchimia vocale-sonora della figura.

Alchimia, Ermanna Montanari

Alchimia

Ieri abbiamo deciso di concederci due giorni di completo silenzio per riuscire a fare ordine nella difficoltosa ricerca del nostro prossimo lavoro: fedeli d’Amore, che fatica a scaturire con leggerezza. Da mesi siamo in bilico su questa materia, composta da pezzi musicali e versi poetici in gran parte appartenuti a Inferno, l’opera realizzata l’estate scorsa su Dante. Abbiamo deciso di chiuderci “al mondo”. Cosa per noi difficile, sempre propensi al sì, al dialogo, alla superficie che è la pelle delle cose, e certo di grande sostanza, ma in questi giorni di concentrazione tutto questo rumore rischia di diventare confusione, la rocciosa fiducia nella comunità di riferimento diventa sfibrante e dobbiamo separarci dal fuori. Per me non è poi così difficile, mentre per Marco è una condizione da dichiarare alla compagnia. Marco ha liturgie quotidiane limpide come un’architettura rinascimentale. Dopo il risveglio, dopo aver dedicato una mezz’ora alla sua persona, inizia la giornata per scrivere e leggere e telefonare, mentre per me è tutta scombinata la mattina, quando si tratta di mattina, che spesso è mezzogiorno. Dipende se avrò voglia di lavarmi oppure no, se vorrò fare colazione oppure no, se andrò a camminare per un’oretta al mare oppure starò a guardare un poliziesco su Netflix, oppure… Marco sorride, e attende. E poi, una volta pronta, si inizia. Come in questi giorni a procedere per l’ideazione di fedeli d’Amore.
Ci si inizia all’inatteso.
Questa volta siamo davvero in alto mare. Non ci soddisfa la materia su cui stiamo lavorando, ci sembra debole, forse è solo un’affezione per quei ritmi cupi che le percussioni dei musicisti ci hanno lasciato in testa, per quei versi di Ugolino che non smettono di rincorrerci nella memoria. Abbiamo messo in mezzo una sapiente del teatro d’ombre, Anusc, perché ci sembrava essenziale lavorare con un filtro così potente per metterci a petto su Dante, sulla Vita Nuova, sulla confraternita dei fedeli d’Amore. Ma l’ombra si rivela fine a se stessa, e non riusciamo a vederci noi in relazione a essa. Così come con Ceccarelli, non abbiamo indicazioni per la musica, non abbiamo una struttura plausibile da proporgli perché lui possa iniziare il suo percorso nei suoni. Siamo muti. Entrambi coi nostri strumenti di riferimento. Marco a leggere Eliot e Pound, e io a terra, sul pavimento coperto di fogli e fotocopie con immagini che non mi dicono niente. Siamo nell’abisso, una distanza siderale ci divide dal vedere l’opera. C’è calma, fiducia nell’altro, in una possibile epifania. Raccolgo da terra alcuni versi ricopiati su un foglietto sotto il disegno sghimbescio di una vela, datato al gennaio scorso: Amore, oggi il tuo nome / al mio labbro è sfuggito / come al piede l’ultimo gradino… / Ora è sparsa l’acqua della vita / e tutta la lunga scala / è da ricominciare. / T’ho barattato, amore, con parole. / Buio miele che odori / dentro diafani vasi / sotto mille e seicento anni di lava / ti riconoscerò dall’immortale / silenzio. Sono versi di Cristina Campo. La sua scrittura cristallina, la sua devozione per la parola mi spinge a leggerli a Marco, lui stesso, come lei, impegnato a rendere conto di ogni parola, parole di pietra che vorrebbero tendere al canto. Lo spartito architettonico dei cervelli degli scrittori mi ha sempre affascinato e obbediente mi sottometto all’ascolto. Per loro la scrittura è spazio sacro. E a volte le parole si ergono come una diga per
spaccare la durezza di una materia che fatica a darsi a vedere. Mentre leggo a voce alta, Marco batte il tempo con una matita sulla coscia, lo fa spesso, come se ascoltasse mentalmente l’armonia del mondo, mentre io mi distendo immobile sul pavimento freddo di marmo.
A un certo punto della notte, dopo ore e ore di ipotesi infruttuose, di idee naufragate, come se fosse terminata una cerimonia iniziata con la scia di quei versi amorosi che la Campo ci aveva lasciato nel giorno, mi viene da dire: «Marco, e se fosse la nebbia a parlare? La nebbia, sì, una figura che prende voce, una figura del mondo».
Marco mi guarda, sorpreso. La nebbia, sì, la nebbia. La nebbia che avvolgeva Ravenna la notte tra il 13 e il 14 settembre 1321, quando Dante moriva di febbre malarica, delirante, attorniato dai suoi cari, gli allievi dello Studio, i signori della città. E si mette a scrivere. Il rubinetto si è aperto.

Ermanna Montanari, 3 marzo 2018, Ravenna
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