Attore e regista fuori dai canoni, Pippo Delbono è uno degli artisti italiani più conosciuti sulla scena internazionale. Da anni i suoi spettacoli riempiono dovunque i teatri e dilagano nei festival più importanti d’Europa, da Avignone a San Pietroburgo. Partendo dalla lezione di Pina Bausch, ha portato “la danza nel teatro” e creato un personale linguaggio teatrale immediatamente riconoscibile rispetto alle altre esperienze contemporanee più innovative. È un teatro popolare il suo, nel senso più alto del termine, inteso cioè come strumento per calarsi nel presente. Dove il vissuto dell’artista emerge anche quando si confronta con la tradizione operistica sul palcoscenico del San Carlo o si allarga al cinema con opere ‘fuori formato’, girate per scelta con mezzi poverissimi. Come il più recente Vangelo, nato come “opera contemporanea” con l’impiego di un’orchestra lirica e rivoltato poi nel film premiato all’ultima Mostra del cinema di Venezia.

Ma c’è un altro modo di immergersi nell’esperienza artistica di Pippo Delbono? Un’esperienza che reca fortissima l’impronta anche biografica dell’autore, fin dal principio collocato su un margine della propria opera, contemporaneamente dentro e fuori. Quello compiuto dall’artista nell’arco di trent’anni si rivela un lungo viaggio che parte da una personale ‘malattia’ (il sentimento di una diversità, la dolorosa elaborazione di un lutto, la scoperta dell’Hiv) per tramutarsi in strumento di conoscenza. In maniera opposta al demonismo individuale di un Doctor Faustus, la ‘malattia’ diventa per Delbono la strada che apre all’altro, e in definitiva a una più profonda e luminosa comprensione della realtà.

Frutto di un dialogo con l’artista che dura ininterrotto da più di un ventennio, dove lo sguardo spesso prevale sulla parola, questo libro vuole essere un viaggio dentro un viaggio. Verso quell’Itaca che inevitabilmente ci aspetta. Senza negarsi al racconto e neppure alla concretezza dell’analisi, a metà fra la scrittura saggistica e quella letteraria, senza perdere di vista il lettore che ha di fronte. Un libro rivolto a chi ama il teatro e a chi potrebbe partire da qui alla sua scoperta.

La prima parte attraversa orizzontalmente gli elementi costruttivi del linguaggio teatrale (e filmico), si addentra progressivamente nel processo creativo, muovendo dalla drammaturgia testuale verso quella musicale, dal gesto dell’attore allo spazio in cui si inserisce, intrecciando i silenzi di John Cage con l’impurità del rum bevuto da Lévi-Strass alla Martinica, le prove di uno spettacolo di Pina Bausch con le “Demoiselles d’Avignon” di Picasso; mentre la seconda parte ne ripercorre tutti gli spettacoli più significativi, lasciando emergere il percorso tracciato in questo lungo arco di tempo. Ai margini si collocano due tappe, a Zagabria e Venezia, di avvicinamento all’ultima creazione, Vangelo; paradigma dei tanti altri viaggi, quello compiuto insieme in Palestina fra tutti, che formano la trama segreta del libro. Sperando che, con Kavafis, anche il lettore possa augurarsi che la strada sia lunga perché Itaca ci ha dato la meta ma quello che importa è il viaggio.

Gianni Manzella è scrittore di cronache teatrali, saggista, studioso delle arti sceniche e altro ancora. Ha scritto e curato libri dedicati alla scena contemporanea, fra cui “La bellezza amara. Arte e vita di Leo de Berardinis” (seconda edizione La Casa Usher, 2010). Scrive da molti anni sulle pagine culturali del quotidiano “il manifesto”. Ha fondato e diretto la rivista di cultura e politica delle arti sceniche “art’o”.