di Romeo Castellucci
regia, scene, luci, costumi Romeo Castellucci
testi Claudia Castellucci e Romeo Castellucci
musica Scott Gibbons
con Rascia Darwish, Gloria Dorliguzzo, Luca Nava, Stefano Questorio, Sergio Scarlatella
e con Mauro Barbiero, Simonetta Gamberini, Roberta Raimondi
assistente alla scenografia Massimiliano Scuto
assistente alla creazione luci Fabiana Piccioli
direzione della costruzione scenica Massimiliano Peyrone
sculture di scena, automazioni, prosthesis Giovanna Amoroso, Istvan Zimmermann
realizzazione dei costumi Laura Dondoli
assistenza alla composizione sonora Asa Horvitz
tecnica di palco Michele Loguercio, Lorenzo Martinelli, Filippo Mancini
tecnica del suono Matteo Braglia
tecnica delle luci Danilo Quattrociocchi
produzione Benedetta Briglia, Cosetta Nicolini
promozione e comunicazione Gilda Biasini, Valentina Bertolino
amministrazione Michela Medri, Elisa Bruno, Simona Barducci
consulenza amministrativa Massimiliano Coli
brani musicali presenti nello spettacolo:
“O Heavenly King” composto da Alexander Knaifel, eseguito da Oleg Malov e Tatiana Melentieva album “Alexander Knaifel: Shramy Marsha, Passacaglia, Postludia – Megadisc, 1996
“Wade In the Water” composto da John Wesley Work II e Frederick J. Work, eseguito da Empire Jubilee Quartet. album “Take Me To The Water” – Dust-to-Digital, 2009
Socìetas Raffaello Sanzio
in coproduzione con Théâtre de la Ville with Festival d’Automne à Paris, Théâtre de Vidy-Lausanne, deSingel International Arts Campus /Antwerp, Teatro di Roma, La Comédie de Reims, Maillon Théâtre de Strasbourg / Scène Européenne, La Filature Scène nationale-Mulhouse, Festival Printemps des Comédiens, Athens Festival 2015, Le Volcan, Scène nationale du Havre, Adelaide Festival 2016 Australia, Peak Performances 2016 Montclair State-USA
con la partecipazione del Festival TransAmérique-Montreal
Si ringrazia per la collaborazione il Comune di Senigallia- Assessorato alla Promozione dei Turismi, Manifestazioni / AMAT
Durata 1 ora e 15 minuti
Protagonista della scena d’avanguardia con il suo teatro provocatorio e destrutturante, Romeo Castellucci è stato insignito di numerosi riconoscimenti, tra cui il Leone d’Oro alla carriera della Biennale Teatro di Venezia e, di recente, la laurea ad honorem in Discipline della Musica e del Teatro conferitagli dall’Università di Bologna.
Dopo il discusso Sul concetto di volto nel figlio di Dio il regista affronta una figura apicale della cultura religiosa occidentale, Mosè. Ma si tratta di un Mosè dissolto nelle scene, la cui figura tralascia la narrazione biografica per estendersi su concetti, sentimenti e caratteri di una rivelazione che agisce ora, nel tempo attuale. In una dimensione sospesa fra quotidianità e presente, Mosè si avvicina allo sguardo dello spettatore procedendo per quadri e frammenti che emergono come increspature nello spazio-tempo della vita quotidiana, oscuramente percepita come esilio.
Il titolo evoca la celebre canzone spiritual degli schiavi neri d’America, che si identificavano con il popolo ebraico, in quanto preveggenza del loro ritorno all’Africa. Gli israeliti, capaci di ritornare dall’esilio di Babilonia e – grazie a Mosè – di affrancarsi dalla schiavitù di Egitto, erano il simbolo della loro prossima liberazione, così come ora, quel canto degli schiavi d’America, può significare la condizione della nostra schiavitù incorporea, in esilio dall’essere.
«Il lavoro trasfigura i differenti momenti della vita di Mosè – afferma Castellucci –, così come ci vengono narrati nel libro dell’Esodo. Nelle vicende di quest’uomo vi è qualcosa che inerisce la sostanza del nostro tempo. Come nel Mosè di Michelangelo descritto nelle pagine che Freud ha dedicato a quest’opera, il profeta del monoteismo è presentato come un uomo che reagisce di fronte alle difficoltà che questo Dio, senza nome e senza immagine, gli pone innanzi: l’abbandono del suo corpo neonato nelle acque del Nilo; il mistero del roveto ardente, dove si manifesta, nel kabod, l’abbacinante e terribile splendore della gloria di YHWH; i quaranta giorni passati sul monte Sinai, dove riceve le tavole della legge; e infine la scoperta, al suo ritorno, del vitello d’oro eretto dal suo popolo per essere adorato». «Due immagini – conclude il regista – convogliano e guidano questo spettacolo, come le facce di una stessa medaglia: il roveto ardente, che rappresenta la vera immagine, che nega ogni rappresentazione (“io sono colui che sono”) e il vitello d’oro, che invece raffigura la falsa immagine, quella illustrativa di quella stessa frase. Tutto quello che sta in mezzo è l’oggetto di questo lavoro».
Intervista a Romeo Castellucci di Anna Bandettini e recensione di Rodolfo Di Giammarco
Intervista a Romeo Castellucci – L`altro Mosè
Anna Bandettini, la Repubblica, 9 gennaio 2015
Se mai venisse in mente a qualcuno di vederli uno seguito all’altro sarebbe anche un divertente confronto: il Mosè hollywoodiano, spettacolare, epico, magari un po’ puerile di Ridley Scott, Exodus, sugli schermi dal 15 gennaio, e il Mosè enigmatico, oscuro, profetico, teatrale di Go down, Moses di Romeo Castellucci, il regista italiano più invisibile in Italia (questo spettacolo lo si vedrà solo al Teatro Argentina di Roma da oggi al 18) ma più visto. Cercato, prodotto in Europa. Nel 2015 sarà a Berlino in marzo alla Schaubühne per mettere in scena Edipo tiranno, poi in Russia con Uso umano di esseri umani, in giugno al festival Art Basel con una nuova performance, Le metope del Partenone, quindi a Parigi dove il Festival d’Automne produce la leggendaria Orestea di tanti anni fa, senza contare, per l’avvio dell’era Lissner all’Opéra, nel 2016 la regia di Moses und Aron di Schoenberg. Go down, Moses potrebbe essere una tappa verso l’opera di Schoenberg, anche se Castellucci vi affronta il Libro dell’Esodo a modo suo. «Mosè, non c’è», spiega subito. Gli episodi e le emozioni della sua vita, dal roveto ardente dell’incontro con Dio ai 40 giorni sul monte Sinai, al culto del vitello d’oro, saranno un’eco dietro i quadri, alcuni astratti altri naturalistici, di una storia diversa: quella interiore di una donna di oggi che abbandona il proprio figlio, «forse per salvare l’umanità dal suo deserto», dice serio, calmo Castellucci.
Perché questa improvvisa generale passione per Mosè e il libro dell’Esodo?
Considero l’Esodo un libro straordinario e la Bibbia un pilastro della cultura occidentale, a prescindere dalla fede che non mi interessa. Dico solo che come potenza formale la Bibbia è insuperabile, perché la religione è un bisogno dello spirito umano che, diceva Lacan, è invincibile. La fede non c’entra, parlo della grande narrazione della religione e della possibilità di confrontarsi con strutture narrative primitive. E il Libro dell’Esodo è cruciale: vi inerisce la sostanza della nostra epoca. Ci sono dentro parole chiave — il camminare senza meta, la solitudine, il divieto delle immagini, il deserto… — che hanno nutrito la nostra cultura e ancora ci parlano, a cominciare dal concetto di esodo, come attraversamento di un deserto mentale che è ciò che ci caratterizza nonostante viviamo in grandi città affollate, tanto sommersi di informazioni per cui non c’è più niente da vedere, da sapere.
Da cosa nasce l’interesse di Hollywood, secondo lei?
Credo che ci siano altre ragioni: in questo momento di guerre di religione è un modo illustrativo per esorcizzare l’idea del dio degli eserciti, di Israele come popolo armato fin dalla sua fondazione.
E Mosè, in tutto questo?
Quello che mi colpisce di questa figura sospesa nella leggenda è l’incontro faccia a faccia con Dio. Sostenere l’immagine del Dio è una cosa terribile, e infatti Mosè non vuole, si schermisce, ma quell’atto è ciò che ha reso problematico per sempre lo stare davanti a una immagine, intesa come campo del sapere, non come illustrazione. E per me questo è ciò che fa di Mosè una figura molto interessante. Dall’immagine più pura, quella del roveto ardente dove si manifesta, terribile e abbacinante Dio, all’immagine più lurida, sconcia, idolatra del vitello d’oro che ammorba, non libera e per questo viene proibita, l’invenzione potentissima di Mosè è quella di problematicizzare la questione delle immagini; negare la visione per vedere, è una tensione che aprirà la strada alla storia dell’arte, per esempio. E questo è sicuramente un filone dello spettacolo. L’altro è che a Mosè io ci sono arrivato dalla cultura americana. Ho riscoperto l’Antico Testamento da Melville, Faulkner, Hawthorne con Il velo nero del pastore.
Go down Moses è un libro di racconti di Faulkner.
Si, e anche il titolo di uno spiritual di quando gli afro americani erano schiavi e sognavano la liberazione come una sorta di secondo esodo. D’altra parte schiavitù è una parola importante, nominata spesso nell’Esodo. Anche nel mio spettacolo la donna fa riferimento alla schiavitù invisibile in cui tutti siamo caduti. Per noi, esseri esiliati da noi stessi, abbandonati dal Dio, questa donna sacrifica il suo bambino che crede sia il nuovo Mosè, colui che firmerà una ‘nuova alleanza’ per salvarci.
Mosè incontra un Dio senza nome che non si lascia vedere, forse terribile ma che libera il popolo ebraico. Chi o cosa potrebbe spezzare le nostre catene?
Non lo so. E il mio non è un teatro che da messaggi o speranza. Nello spettacolo non c’è alcuna visione futura. Semmai si guarda indietro, all’impronta di una mano trovata in una caverna che viene considerata la prima immagine dell’umanità. Secondo gli studiosi è di una donna, perché le donne restavano nelle caverne ad aspettare i cacciatori e lì inventavano, creavano le immagini, l’arte. Questo vuoi dire che l’ossessione di Mosè di credere che un popolo possa accettare di chiudere gli occhi e gli orecchi per vedere e sentire Dio era già sconfitta alle origini. Non si sfugge all’immagine, anche quando vuoi cancellarla.
A spasso nel tempo con Castellucci quel che resta del profeta Mosè,
Rodolfo Di Giammarco, la Repubblica, 18 gennaio 2015
Il cursore della storia e dei miti, delle espressioni artistiche e dei linguaggi depositati o inconsci è perennemente in moto, nel suggestivo, profondo e anche spaesante lavoro di Romeo Castellucci Go down, Moses, un prodotto della Socìetas Raffaello Sanzio e del Teatro di Roma, e di tanti partner europei. Basti pensare al prologo con un drappello di intellettuali di oggi (velati da un tulle montato sul proscenio) al cospetto del Leprotto di Arbrecht Dürer, perfetto studio della natura cinquecentesco. Visitatori d’una mostra che saranno poi associabili, nell’epilogo, a figure scimmiesche d’una caverna preistorica, dove al ralenti vedremo neonati sotterrati, amplessi per rigenerare, e un geroglifico a forma di SOS impresso sul voile con stordenti amplificazioni rivolte a noi del futuro. Per una captante idea di Castellucci, le epoche si parlano, le società si mandano segni da lontanissimo. E l’antica condizione errante di Mosè lo ha certo coinvolto, adottando qui volentieri il titolo del gospel (per voce del Golden Gate Quartet) della gente di colore di metà ‘900 con speranze analoghe a quelle degli ebrei in Egitto. Un’altra commistione spazio-temporale è affidata all’assenza fisica del profeta, con ruolo nevralgico affidato a sua madre che lo salvò da persecuzioni depositandolo in una cesta sul Nilo. Dopo la pietà suscitata da un odierno padre incontinente nello spettacolo del 2011 Sul concetto di volto nel figlio di Dio, adesso tocca a una copia contemporanea di lochebed, biblica mamma di Mosè, accollarsi lo strazio di chi ha rinunciato a un figlio, con onere della prova a distanza di millenni. Una micidiale, dolorosa emorragia sofferta dalla ragazza nella toilette d’un bar dei nostri giorni riproduce il remoto strappo (e quel fulcro fecondo del corpo femminile può far ravvisare il grembo de L’origine del mondo di Courbet), mentre un transfert fa sì che qui il Nilo sia sostituito da un cassonetto, rozzo rifugio per neonati di genitrici disperate. E Castellucci, che sempre relaziona strutture asimmetriche, diacroniche ma ben surrogatorie, introduce una turbina (che risucchia nude parrucche discendenti dall’alto) forse per alludere al roveto ardente che parla a Mosè, e immette uno scanner medico che, dopo un colloquio indulgente di un ispettore di polizia con la ragazza-madre, dovrebbe analizzare l’anatomia della donna fin lì capace solo di preannunciare il ruolo salvifico del Mosè da lei abbandonato, e in realtà la tac ha un effetto traghettatore da un’era moderna a una primordiale. La risonanza magnetica fa diventare narrante l’intima fisionomia di chi ha messo al mondo Mosè, e come in 2001: Odissea nello spazio di Kubrick viaggia all’indietro per approdare a una brumosa, ancestrale, platonica caverna in cui giace l’alba dell’umanità, da cui vengono rivolti a noi tellurici segnali di distorsione acustica e ideogrammi di bellezza toccante. A modo suo, con l’apporto di formidabili vibrazioni composte da Scott Gibbons, coi testi suoi e di Claudia Castellucci, e col contributo di Rascia Darwish, Gloria Dorliguzzo, Luca Nava, Stefano Questorio e Sergio Scarlatella, anche Romeo Castellucci aggira la comprensione per fare appello a intuito, sensibilità e sesto senso. Che vanno chiesti al pubblico.