di Carullo-Minasi
regia, testi e interpretazione Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi
scene e costumi Cinzia Muscolino
disegno luci Roberto Bonaventura
aiuto regia Roberto Bitto 

Carullo – Minasi e Il Castello di Sancio Panza

Durata 50’

Prenotazione obbligatoria

Spettacolo vincitore del Premio Scenario per Ustica 2011, Premio In-Box 2012 e del Premio Internazionale Teresa Pomodoro 2013, Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi portano in scena Due passi sono, un allestimento delicato, ironico e malinconicamente beckettiano. Formatosi alla scuola di Teatro Teatès diretta da Michele Perriera per poi proseguire alla scuola di teatro Vittorio Emanuele diretta da Donato Castellaneta, attore della compagnia di Leonardo De Berardinis, Giuseppe Carullo inizia nel 2009 a collaborare con Cristiana Minasi –  allieva de ‘L’isola della pedagogia’, scuola internazionale di Alta pedagogia della scena diretta da Anatolij Vasiliev (progetto insignito del Premio Speciale Ubu 2012) –  riscuotendo fin da subito riconoscimenti da pubblico e critica.
Due passi sono, primo capitolo di una trilogia che attraverso il Simposio di Platone indaga il concetto di amore, compone un dialogo nel quale si rielaborano esperienze, stati d’animo, desideri in una dimensione assolutamente universale. In scena i due protagonisti, chiusi in un angolo, con sotto i piedi un tappeto a quadri bianchi e neri che dice ‘Salve’, portano in scena la loro quotidianità, narrando la storia vera di una malattia di cui lui ha sofferto e per la quale lei lo ha assiduamente curato. Una fitta trama di comportamenti patologici, psicosomatici e attenzioni reciproche, altamente ossessive. Questa fragile salute altro non è che la salute di tutti noi, della quale ci occupiamo solo distrattamente: Giuseppe e Cristiana al contrario ne sono attentissimi, fino allo spasimo, fino al puro desiderio di vita, di un abbraccio, di un sentimento. Fortissimo è il desiderio di amore tra i due protagonisti, tra i quali, però, un abbraccio può risultare letale.
È la nostra stessa realtà ansiogena ad essere esasperata, la paura e il rinunciare ai propri sogni come primarie leggi di vita. Alla fine il sentimento, l’amore in maniera assolutamente smaccata da classico happy end al quale credere, porta a fare il grande passo e a sfidare il muro del buio. Uno spettacolo che si circonda di un clima sospeso tra ironia e tenerezza, dove estro e verità umana vanno a mescolarsi.

Due piccoli esseri umani, un uomo e una donna dalle fattezze ridotte, si ritrovano sul grande palco dell’esistenza, nascosti nel loro mistero di vita che li riduce dentro uno spazio sempre più stretto dall’arredamento essenziale, stranamente deforme, alla stregua dell’immaginario dei bimbi in fase febbricitante. Attraverso le sezioni della loro tenera per quanto altrettanto terribile, goffa e grottesca vita/giornata condivisa. Sembrano essere chiusi dentro una scatoletta di metallo, asettica e sorda alle bellezze di sui sono potenziali portatori, ma un “balzo” – nonostante le gambe molli- aprirà la custodia del loro carillon. Fuoriescono vivendo il sogno della vera vita da cui v’è più bisogno di sfuggire, ma solo vivere, con la grazia e l’incanto di chi ha imparato ad amare la fame, la malattia dunque i limiti dello stare. Immagine- cripta sacra, surreale e festosa, quella del loro matrimonio lì dove come in una giostra di suoni, colori e coriandoli, finiranno per scambiarsi meravigliosi propositi di poesia.
 Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi

www.carullominasi.wordpress.com

Intervista a Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi

di Mario Bianchi per Krapp’s Last Post

Lo spettacolo di Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi, mette in scena una storia d’amore molto particolare, di due esseri molto particolari, un uomo e una donna dal corpo minuscolo che, abbarbicati su due sedie, vivono in uno spazio anch’esso piccolo. Il loro rapporto, tra pillole e guanti antimicrobi, è punteggiato dalla paura di dover uscire in un mondo che potrebbe non accoglierli.
Solo alla fine troveranno il coraggio di fare quei due passi che li porteranno forse verso la felicità tanto sognata.
Lo spettacolo, oltre che sulla particolare espressiva corporeità dei due protagonisti, vive sul ritmo di un dialogo tenerissimo, di grande teatralità nella sua apparente assurdità paradossale. Ed anche il finale, assolutamente consolatorio con tanto di abito da sposa che esce a sorpresa da un cuscino, si innesta perfettamente con tutto il contesto, conferendo allo spettacolo uno spessore tutto particolare, alieno da ogni facile retorica.
Per approfondire il lavoro di questi due giovani artisti abbiamo voluto far loro qualche domanda.
Raccontateci innanzitutto qualcosa delle vostre attività prima di Scenario, e come è avvenuto il vostro incontro.
Il nostro incontro, data la collaborazione d’entrambi con due compagnie messinesi, è stato proprio in teatro e in quei suoi dintorni fatti di parole e poesia: è facile che le tavole del palcoscenico abbiano la forte ed imprudente presa galeotta. Il nostro incontro risale a circa cinque anni fa; lì si è cominciato a disquisire e a valorizzare l’uno la poetica dell’altro. In realtà, però, la forza per cominciare a stare nella medesima scena ci è stata in prima istanza offerta da altri. Anzitutto da Adele Tirante, che ci ha reso partecipi del suo progetto “Euphorìa” prodotto dai Teatri del Sacro e, in un secondo momento, da Tino Caspanello (celebre drammaturgo oggi felicemente tradotto e rappresentato anche in Francia) con il suo “Fragile”. Sono state entrambe delle ottime possibilità per condividere desideri e voglie reciproche e, nel confronto continuo dei diversi mesi di lavoro, elaborare l’idea di un possibile gusto condiviso da mettere al più presto in “atto”. A questo atto di vero amore, perché di creazione, si è aggiunto quello dell’associazione Il Castello di Sancio Panza, da sempre compagna di lavoro e di vita, oggi nelle vesti di produzione, organizzazione e distribuzione dello spettacolo.

Com’è nata l’idea dello spettacolo?
Non è stata un’idea a muoverci, ma più propriamente la forte necessità di far qualcosa di concreto, di riscattare la voglia e la forza di essere vivi. Volevamo, tramite il limite in cui ci siamo trovati immersi per uno stato di momentanea difficoltà fisica di Giuseppe, raccontare l’indescrivibile forza di cui è portatore l’uomo. Più che per concetti, abbiamo avuto l’intuizione di operare per giochi di relazione, d’improvvisazione scenica che poi hanno costituito la base di elaborazione del testo. I primi cinque minuti, previsti per la prima selezione di Scenario a Palermo, sono stati elaborati con forte gioia ed incanto, solo seduti al tavolo di un bar con un piccolo taccuino dove, con perizia, abbiamo segnato i punti di una struttura in possibile divenire. Parlavamo di una quotidianità, che poi era quella che al momento ci capitava di vivere, estremamente patologizzata, caratterizzata da una miriade di prescrizioni e divieti, che rendevano la possibile guarigione di Pe, assolutamente invivibile.

Per certi versi lo spettacolo è quindi autobiografico.
Sì, ma la vicenda della malattia è poi solo divenuta un pretesto per potere raccontare un qualcosa di più ampio, che certo non doveva ridursi a mera vicenda personale. Siamo dell’avviso che, chi opera nel settore dell’arte, intesa in ogni senso, deve poter essere in grado di riuscire a decodificare i propri accadimenti in virtù d’una missione più alta. L’obiettivo cui aspirare è quello di promuovere messaggi poetici, il più possibile universali, validi per ogni essere, ciascuno col proprio singolare modo di sentire, validi per ogni tempo.
La comunicazione, così come la sua etimologia suggerisce, è e deve rimanere cum-munis, dunque condivisione di doni reciproci: noi ci mettiamo il nostro, il pubblico il suo, cosicchè se l’operazione riesce, se la magia del teatro accade, il risultato può rilevarsi quale dato obiettivo.
Abbiamo voluto condividere, con i forti tratti dell’autoironia, il nostro convincimento tratto dallo studio su Kantor, in forza del quale “è proprio dal limite che vien fuori l’opera d’arte”. Abbiamo trasformato la malattia in qualcosa di estremamente divertente, nascostamente invertendo i ruoli e rendendo colei che avrebbe dovuto aiutare, la vera ammalata da dirigere verso la giusta rotta del fuori e della libertà.

Il fatto che il vostro spettacolo abbia vinto il Premio Ustica vi ha stupito o lo avete vissuto come un arricchimento di quello che volevate dire?
È motivo di grande orgoglio poter far coincidere il nostro impegno autoriale con l’impegno del risveglio delle coscienze. Crediamo che solo questa sia la strada possibile in un’era quale la nostra, volta all’aggregazione acritica e al disconoscimento dell’attività del pensiero. Spegnendo la candelina della nostra rinascita, speriamo che ciascuna coscienza abbia la forza e la voglia di venire fuori, che i desideri possano ancora essere espressi. Il teatro altro non è che impegno civile, questo è il più bel premio che il teatro ci poteva consegnare.
Così come un dottore crea un danno oggettivamente riconoscibile e deprecabile se erroneamente taglia una parte sana al posto di un’altra, così l’attore/autore/regista che sia, ha la grande responsabilità di rivolgersi al pubblico senza creare né indifferenza o incomprensione verso l’oggetto di cui si tratta, né danno. Un danno alla coscienza è stimabile come un grande e grave danno all’umanità tutta.
Il teatro è per tutti e di tutti, non si può certo accettare che la gente non vada a teatro perché dice di non poterlo capire. Se non lo si capisce vuol dire che non funziona, e se non funziona bisogna che migliori. Se non comunica vuol dire che non assolve alla sua funzione prima. Chi fa teatro ha una grande responsabilità, così come chi lo promuove e chi lo gestisce. In Russia, in Polonia, chi fa teatro è considerato un grande uomo, quasi un eletto, ci si inchina dinnanzi a tal tipo di maestri perché promotori di idee, strumenti di innovazione del pensiero, esseri unici, irripetibili nella loro essenza.

E’ indubbio che ciò che colpisce lo spettatore è la vostra corporeità del tutto particolare. Voi sentite questo aspetto? E come lo avete valorizzato?
Noi diversi gli uni dagli altri, noi molteplici rispetto a noi stessi. La società nel suo complesso sta compiendo questo grave delitto d’uniformazione delle menti e dei corpi. Molti investono la propria intera esistenza “a dimenticarsi, a cancellarsi”, per compiere questo strano rito del “rassomigliarsi” tutti fra tutti. In una società tecnicamente organizzata come la nostra si declinano le identità di ciascuno in vista dell’idoneità e funzionalità del sistema di appartenenza. Così, come Galimberti dice intorno all’attuale degrado, “nella nostra epoca l’amore diventa indispensabile per la propria realizzazione, divenendo l’unico spazio in cui l’individuo può esprimere davvero se stesso, e al tempo stesso impossibile perché nella relazione d’amore, ciò che si cerca non è l’altro, ma attraverso l’altro la realizzazione di sé”. Non ci dedichiamo all’amore nel giusto e dovuto modo: strumentalizziamo sia l’amore sia l’altro, così fingiamo di trovare e promuovere noi stessi. Noi, invece, tentiamo di non essere due singoli, ma coppia: ci interessa sapere che è possibile l’incontro di uomini, che si trovino uniti non da un’attività comune, ma da una qualità dell’anima: la grandezza, forse?
Non abbiamo paura di noi e quindi semplicemente stiamo e facciamo. Tanti maestri spiegano che la semplicità sia faccenda che richiede anni e anni di lavoro. E’ per questo che non ci sforziamo di essere diversi da quello che siamo. Ed è per questo che, usciti da teatro, una piccola ragazza sorridendo ha detto: “Vi ho invidiato, avrei voluto, uscita da teatro, essere un pò più bassina come voi, per essere tanto alta quanto voi”. Chi impara ad amare la vita, con le sue mille straordinarie diversità, sarà in grado di creare e dunque di rimanere con una piccola orma, in questo mondo che di orme ne segna poche, perchè tutte uguali. E’ la diversità che accomuna gli uomini, che li rende tutti sostanzialmente, e non solo formalmente, liberi!

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